Autobiografia come strumento educativo

La storia di una cultura è la storia di idee
che entrano in azione
[Ezra Pound | 1885-1972]

Narrare qualcosa che ti appartiene è una risorsa per crescere. Oggi faccio 22 anni di matrimonio, una delle tante tappe della mia vita. Così deciso e provo ad analizzare l’importanza del racconto.
Un racconto si fonda su legami, relazioni, nessi, sviluppi e significati di una storia e l’autobiografia è, a tutti gli effetti, una risorsa pedagogica.

Oggi comunemente si parla di Storytelling, e qualcuno è diventato così specializzato da costruirci una professione. È una tecnica comunicativa che si sviluppa tra metafore ed esempi in grado di spiegare, o per lo meno di rappresentare, ogni realtà vivente e ciò permetterebbe di illustrare ogni universo fisico, mentale e culturale in varie forme stilistiche e di approccio variegato.
Tutto è narrazione, è intreccio di storie e ogni fenomeno può essere ricondotto a un frame dove l’immagine di una persona comunica la sua identità.
Ad esempio, è sufficiente sfogliare la letteratura anche pedagogica per notare che la dimensione di comunicazione descrittiva, delle esperienze vissute, sono ad uso pratico del linguaggio dove vengono veicolati insegnamenti e metodologie.
Pertanto le forme di comunicazione trasmissive, come la lezione frontale, la ripetizione, l’asserzione, non sono così valide ed efficaci, in effetti nelle nuove metodologie didattiche si sostiene che andrebbero privilegiate le modalità più spontanee, più ‘naturali’ quali il racconto, la conversazione, il dialogo, la discussione.

Nel rispetto dei principi introdotti dalla dialettica e dal metodo “induttivo socratico” possiamo evidenziare l’efficacia dell’uso del mito, della parabola e delle metafore come strumenti di supporto e sostegno all’apprendimento individuale attraverso il proprio vissuto esperienziale e relazionale. Pertanto il ruolo della narrazione educativa è occasione per pensare al senso delle cose della vita e richiamare alle responsabilità individuali di crescere e di sviluppare una chiara visione identitaria.
La narrazione [lo storytelling] in pedagogia, era dunque già apprezzata e adottata ben prima delle tecniche del comunicazione attuali, usata d’istinto o intenzionalmente da chi si trovava ad essere accidentalmente o professionalmente educatore di qualcuno.

Un’educazione efficace cattura la curiosità e sa coinvolgerci soprattutto con implicazioni emozionali. Apprendere e dimostrare di aver appreso, quindi, altro non è che un’attività di comprensione-restituzione per storie. Queste sono meglio riconoscibili nella loro natura di microstorie stimolate dalle sollecitazioni sensoriali, sentimentali e immaginarie.
L’imparare per storie avviene d’altronde in ogni contesto relazionale quotidiano; per cui, come è ben noto, accade di apprendere spesso e soprattutto in contesti che stanno, in una scala di valori accettati dalla cultura di appartenenza.

Nelle diverse culture si impara a diventare donne e uomini attraverso i racconti e i dialoghi e posso concludere affermando che il fare EDUCAZIONE è una NARRAZIONE continua, dove il buon risultato educativo si espande attraverso un apprendimento per storie e narrazioni.
Un ambiente dove ognuno è il proprio “palcoscenico personale”, è lui stesso il principale protagonista del proprio drama. La scrittura autoanalitica diventa una vocazione pedagogica in particolare nello sviluppo professionale di un educatore. E l’autobiografia è uno strumento riflessivo e critico per coloro che operano ai fini pedagogici, sicuramente molto utile per il proprio sviluppo professionale, a mio avviso di tanti altri lavori.
La scrittura diventa il metodo di esplorazione, una riflessione, una modalità per fare l’autoanalisi e mira ad allargare i confini del proprio punto di vista.
Rintracciare le radici nella propria storia personale scava nella propria interiorità, nella consapevolezza che siamo connessi alle persone che incontriamo in questa esistenza. Pertanto, nella nostra esperienza quotidiana di educatrici diamo un valore connesso alla nostra biografia e la relazione che instauriamo come riflesso pedagogico.

Pensare il proprio Sentire

Ci sono importanti ragioni pedagogiche che rendono la pratica di scrittura autoanalitica uno strumento prezioso per l’educatore, poiché essa offre uno spazio di riflessione critica e di monitoraggio costante del proprio agire quotidiano che si traduce in occasione di auto-formazione.
È uno sguardo sul proprio operare oculato, è mia convinzione che il lavoro educativo sia sempre un lavoro ad alto impatto emotivo e ad alto coinvolgimento personale, tanto da richiedere una costante attenzione sul proprio modo di stare nella relazione, prendendosi cura di ciò che è manifesto così come di ciò che agisce in modo latente all’interno della relazione stessa.

Ognuno di noi fa i conti con la propria storia e può dunque farsi carico della propria vita interiore.

L’approccio narrativo e autobiografico porta a interrogarsi sui vissuti in spazi, oggetti e nell’arco del tempo in tutta la complessità del suo essere umano, e ci rimanda a un corpo, a una mente, a uno spirito, alla nostra storia con una profonda consapevolezza di sé, certamente imperfetta, in divenire, soggetta ai cambiamenti.
Assecondando le maree delle vicende esistenziali che sono parte della vita di ognuno al fine di essere in grado di svolgere con autentica consapevolezza il proprio ruolo.
La formazione dell’educatore come professionista dovrebbe, in tal senso, prevedere una formazione alla riflessività non solo rispetto all’esterno – intesa come pensiero critico verso gli utenti e il contesto ma anche e soprattutto verso il proprio interno: alla propria vita interiore (Demetrio)[1] abitata da fantasie e da fantasmi, da memorie e ricordi, da chiaro-scuri, da pensieri e sensazioni, questa vita interiore inevitabilmente si riverbera e si genera, al tempo stesso, nell’agire professionale.
Ne è spesso esempio quella sorta di inquietudine, quella sensazione di vago disagio – inteso come stato di non agio – che può affiorare nell’incontro e nell’impatto con le dimensioni gravi dell’esistenza – il limite, la fatica, il dolore, la paura – che si attraversano nel lavoro educativo.
È per questa ragione che, in sintesi, il lavoro pedagogico necessita di professionisti che sappiano farsi carico del proprio mondo interiore.

Nel pensiero di Piero Bertolini[2] ricordava come la pedagogia e la psicoanalisi operino in campi complementari:

“Mentre la psicoanalisi si occupa del soggetto nella sua attualità con particolare attenzione alla sua zona inconscia o subconscia, la pedagogia ha come prospettiva di fondo quella di sollecitare ed aiutare l’educando a raggiungere il massimo livello di esistenza consapevole a lui possibile mediante un equilibrato sviluppo delle varie capacità psicofisiche e della sua capacità intenzionale”

Entrambe le discipline, entrambe le pratiche si potrebbe dire, affondano il proprio intervento nella vita delle persone, nella loro storia e soprattutto per la progettazione del presente e del futuro di quella vita.
Questo impegno investe il senso stesso di identità, società.

È sempre più importante che gli operatori dell’educazione sappiano restituire la propria trasformazione della propria storia.

In fondo siamo tutti un po’ bruco e un po’ farfalla. Si tratta di una pratica che mira ad allargare i confini del proprio punto di vista a partire, però, dal rintracciarne le radici nella propria storia personale, autobiografica.
D’altro canto, come si legge nello scambio epistolare tra Sigmund Freud e Fliess[3] si evince che lo stesso Freud iniziò la sua autoanalisi nell’estate del 1897 dopo la morte del padre, avvenuta il 23 ottobre 1896, riconoscendo in sé i segni della nevrosi.
Freud stesso si dichiarava estremamente consapevole dell’intreccio fra il proprio lavoro autoanalitico, la propria storia di vita e la stesura del suo saggio Interpretazione dei sogni.
Un libro collegato alla sua autobiografia è una reazione alla morte del padre.

La pratica dell’autobiografia è un metodo che non mira alla cura terapeutica ma alla presa in carico del proprio mondo interiore con consapevolezza.
A volte possiamo scoprire le ragioni delle innumerevoli manifestazioni del pathos, del sentire profondo che genera, anche di fronte alla gioia o al piacere, un malessere oscuro, un’inquietudine che diviene risorsa proprio perché obbliga a so-STARE nel proprio sentire.
È una pratica adulta di auto-formazione che consente al soggetto di scoprire dentro di sé in modo autonomo le proprie potenzialità e possibilità di lettura del proprio stato d’animo.

Un’analisi di auto-osservazione, al fine di scoprire e diradare i nodi cruciali che si trovano dentro di sé (Horney, 1971, collega di Erich Fromm)[4]. L’autrice ha recuperato la capacità del soggetto di attribuire il proprio significato al mondo. Le chiavi di lettura del mondo interiore, è il soggetto ad agire il cambiamento.

 “Se ci si limita a prendere coscienza di sé senza contemporaneamente fare nuovi passi che prendano il via da questa nuova consapevolezza, qualunque presa di coscienza rimane inefficace” [Fromm, 1996]

Per fare ciò, “occorre evitare di concentrarsi esclusivamente sui problemi personali il punto è quello di mantenere un rapporto di partecipazione verso ciò che ci circonda” (Fromm, 1996)[5].

La scrittura della autobiografia può risvegliare la passione di esistere, dice Duccio Demetrio[6]. È, cioè, nella scrittura è costruzione del pensiero filosoficamente inteso e tramite esso diviene costruzione del significato che ciascuno attribuisce al mondo.
È un atto pro-creativo di collegamento profondo fra scrittura e autoanalisi che si rintraccia nelle sue origini psicoanalitiche.

Chi di noi non ha mai avuto un Diario?

Carl Gustav Jung pone la scrittura come tessitura del proprio pensiero, scrivere, oltre ad avere l’effetto di ricollocare pensieri in modo sistematico, secondo processi teorici lineari, riesce a mettere ordine nel tumulto delle emozioni, talvolta sovrabbondanti.
Noi tutti abbiamo zone d’ombra, suggestioni, paure, desideri.

La necessità per l’educatore di fare della scrittura autoanalitica uno strumento personale di formazione, riflessione critica, rielaborazione personale della propria vita interiore animata dal proprio agire e sentire professionale.
Ogni parola utilizzata, ogni pensiero registrato diviene oggetto di analisi da parte del suo autore, che va alla ricerca dei suoi significati e delle sue ragioni, risalendo i sentieri sensibili del pensiero e della memoria.
Si tratta di un pensiero profondo che pensa sul proprio sentire e che sente il proprio pensare, che è comprensione di sé e di ciò che sta accadendo al tempo stesso.

Se, l’educatore autonomamente dedica attenzione a sé, alla propria educazione interiore, ne trarranno maggiore profitto anche gli incontri in équipe e i momenti di supervisione, ove le riflessioni maturate in privato potranno divenire materiale di lavoro collettivo.
Proprio per questo, in conclusione, si ritiene importante soffermarsi su di un ultimo punto: avere la consapevolezza di quanto l’incontro con l’altro, attraverso il processo di coinvolgimento del lavoro educativo, è in grado di attivare la propria trasformazione.

Arriva un momento nell’età adulta in cui si avverte il desiderio di raccontare la propria storia di vita. Per fare un po’ d’ordine dentro di sé e capire il presente; per ritrovare emozioni perdute e sapere come si è diventati, chi dobbiamo ringraziare o dimenticare. Quando questo bisogno ci sorprende, l’autobiografia di quel che abbiamo fatto, amato, sofferto, inizia a prendere forma. Diventa scrittura di sé e alimenta l’esaltante passione di voler lasciare traccia di noi a chi verrà dopo o ci sarà accanto. Sperimentiamo così il “pensiero autobiografico”, che richiede lavoro, coraggio, metodo, ma procura, al contempo, non poco benessere.
[“Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé” – Duccio Demetrio – anno 1996]

“Se non conosci la storia sei un perfetto ignorante, sei come una foglia che non sa di essere nata dall’albero”. [Michael Crichton]

e tu che ne pensi? adesso aspetto la tua opinione nei commenti


[1] Demetrio, D. (2000). L’educazione interiore. Introduzione alla pedagogia introspettiva. Firenze: La Nuova Italia.

[2] Bertolini, P. (1990). L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata (2 ed.). Scandicci: La Nuova Italia.

[3] Freud, S. (1986). Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1902). (Eds. J. M. Masson). Torino: Paolo Boringhieri.

[4] Horney, K. (1971). Autoanalisi. Come e fino a che punto ci si può analizzare da se stessi. Roma: Astrolabio.

[5] Fromm, E. (1996). L’arte di ascoltare. Milano: Mondadori.

[6] Demetrio, D. (2003). Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé. Milano: Raffaello Cortina.

Beh dopo una serie di riflessioni condivisibili o no, sicuramente sono figlia di una storia,
la mia!



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